lunedì 10 gennaio 2011

Ai dirigenti del Partito Democratico


I dirigenti del Partito Democratico che si schierano apertamente con Marchionne in questi giorni fatidici non sembrano avere un contraltare degno di nota che possa sopperire allo spaesamento di una burocrazia partitica paralizzata. Paralizzata e tendente a destra sui temi centrali dei diritti dei lavoratori.
Di fatto il principale partito di massa con ambizioni socialdemocratiche devìa sorprendentemente da qualsiasi tipo di risolutezza, anche effimera.
Quello che chiamano modernità è il risultato di un processo ineluttabile di competitività globale dell'offerta di lavoro. Ma quello stesso processo è stato completamente sviato e mortificato quando quegli stessi dirigenti si trovavano nella condizione di legiferare.
Mi riferisco al biennio 2006-2008, quando con il Protocollo Welfare del 2007 si è deciso di acconsentire alle richieste, quelle sì anacronistiche, di una lobby sindacale che mirava a un pugno di privilegi sbiaditi per i propri iscritti cinquantottenni ai danni di una generazione depraudata della solo possibilità di coagulare in un sindacato o in una qualsiasi forma di rivendicazione collettiva. Sì è deciso di lenire lo scalone pensionistico (Riforma Maroni) in nome di un'assurda esigenza di tutela dei pensionandi. Si parlava di scaloni e scalini mentre milioni di giovani dovranno sobbarcarsi le conseguenze di una paralisi reazionaria decennale volta a conservare dei privilegi che ormai suonano come insulti.
Quegli stessi dirigenti che, cedendo al molle spasmo dell'allora Rifondazione Comunista, si presero la briga di ottenere per le lavoratrici parasubordinate una "sospensione" del progetto. Lasciando rieccheggiare nel nulla l'urlo sordo di una benchè minima parificazione dei diritti-doveri intergenerazionali.

Ora dico a quei dirigenti: avete ceduto alle pressioni odiose e sterili della CGIL quando c'era da firmare il protocollo Welfare, ora la criminalizzate perchè vede come un oltraggio la definizione di sciopero come «quei comportamenti individuali e/o collettivi idonei a violare... in misura significativa le clausole del presente accordo... inficiando lo spirito che lo anima» della rappresentanza sindacale come "l'unico sindacato ammesso è quello che ha firmato" (accordo di Mirafiori).

Tecnicamente, da studioso del diritto del lavoro, si torna ad un periodo storico sovverchiato perfino dal concetto di contratto collettivo stabilito durante il ventennio fascista.

Non dico di provare vergogna perchè sareste così sprezzanti da canciare qualcosa in vostra difesa, vi prego solo di mantenere il silenzio. Un silenzio funereo. Che si senta solo il vostro vuoto umano e propositivo, E BASTA!

domenica 22 febbraio 2009

La legge del più ricco


L'avanzamento della crisi propaga l'incertezza dei mercati a qualsiasi ambito interconnesso con la parola produttività o competitività. La pressione sui risultati sta mietendo posti di lavoro e modi agendi degli attori economici.
Con il suo maxi-piano di risanamento da 790 miliardi di dollari Barack Obama oltre alla prassi sembra ricercare soluzioni anche di natura esemplare per sbrogliare gli inceppati macrofenomeni economici. Ha proposto infatti che le banche che hanno usufruito di denaro pubblico per risanare le loro voragini contabili dovranno porre un tetto retribuitvo al top management di 500.000 dollari annui. Timorata di altre oltraggiose iniziative la
Merrill Lynch conta di restituire il debito che ha con la Federal Reserve (circa 10 miliardi) entro il 2009, il tetto retributivo è infatti visto come un abbraccio mortale sistemico, una misura propagandistica che finirà unicamente per affievolire l'ardore manageriale nelle divisioni finanziarie delle grandi banche d'affari.

Giusto o sbagliato che sia intascare milioni in doppia cifra è opportuno sviluppare alcune considerazioni. Nella letteratura economica la diatriba in seno ai modelli di crescita ha generato diverse conclusioni: maggiori livelli di diseguaglianza sono visti come un sano volano all'accumulazione, agli investimenti, alla produttività ed a nuovo sviluppo sociale oppure sono scongiurati in quanto minano fondamentali punti fermi della nostra crescita quali l'accesso all'istruzione e la pace sociale.

Mentre scrivevo la mia tesi di laurea sono inciampato nel seguente grafico


La fonte è un istituto di statistica americano (CBO researchers). Mostra le entrate, in percentuale del PIL americano, del più ricco 1% tra i residenti statunitensi. L'ultimo dato risale al 2005, nel 2007 il livello si alza di ulteriori due punti percentuali.
Con una rapida occhiata si può arrivare ad un'affermazione incontrovertibile: le due più grandi crisi finanziari degli ultimi 100 anni avvengono nei due anni successivi a quelli (1928 e 2007) in cui è più accesa la diseguaglianza tra il centile più ricco ed il resto della popolazione.

Marx scriveva come il maggiore nemico del capitalismo fosse il capitalismo stesso, inteso come formidabile accumulazione miope dei fattori di produzione; questa miopia porterà ad un accrescimento del capitale strumentale (capitale finanziario-rendita) ai danni del capitale tecnico (capitale industriale-profitto) rendendo il sistema nel suo complesso eccessivamente fragile e volatile al benchè minimo cambiamento ("il capitale si scava la fossa da solo").

Comunque finirà questa crisi le pretese del top management della
Merrill Lynch, alla luce di questi dati, non sembrano nè economicamente giuste e nè eticamente sbagliate, semplicemente autolesioniste.

martedì 2 dicembre 2008

From Detroit to Fed


L'amministratore delegato della General Motors Rick Wagoner ha deciso di andare da Detroit a Washington in auto (a basso consumo!) anzichè sul jet privato. Ci andrà per presentare al Congresso americano un piano di salvataggio da 9 miliardi di dollari per la sua azienda.
Da diverse indiscrezioni, compreso il parere illustre di Martin Baily, il consulente economico dell'amministrazione Clinton, il piano di rilancio dell'economia americana nel 2009 metterà in moto 1.200 miliardi di dollari.
Nel suo discorso di sabato 22 Novembre Barack Obama annuncia: "Di fronte a questa crisi di proporzioni storiche proporrò la creazione di 2,5 milioni di posti di lavoro. I mercati finanziari fanno i conti con nuove bufere, acquisti di case ai minimi in mezzo secolo, 540 mila richieste di sussidi di disoccupazione, il massimo da 18 anni. Inoltre il rischio di cadere in spirali di deflazione che aumentino l'enorme debito".
Uno dei più grandi artefici di questo nuovo New Deal sarà Timothy Geithner, l'attuale presidente della Federal Reserve di New York nominato Segretario al Tesoro (Ministro dell'Economia) venturo.
Il "grande vecchio" sarà invece Paul Volcker, classe 1927, ex Presidente della Fed nel periodo Reaganiano (1979-1987) e uno dei principali attuatori della svolta neoliberista che segnò il mondo negli anni '80. Il suo compito sarà quello di presiedere l'Advisory Board, un gruppo di super consulenti economici esterni all'esecutivo, così da proporre "idee nuove".

Il filo che lega queste nomine chiave parte dunque dalle gerarchie della Banca Centrale americana, la Federal Reserve, che in questi giorni oltre a operare nelle sue consuete vesti di regolatore del marcato finanziario e monopolista mondiale nella stampa di dollari, sta imboccando una strada precisa per fronteggiare la crisi.
La Morgan Stanley è una delle principali banche d'affari di New York. Di più, è un'istituzione mondiale per i mercati finanziari, una specie di cattedrale dell'impero. Pochi mesi fa le sue azioni valevano 229 dollari, oggi (2 dicembre) valgono 61 dollari. Come ogni banca ha subito l'onda della crisi perdendo infatti il 73,4% della sua capitalizzazione in borsa.
La Mitsubishi Ufj è la direzione finanziaria del Gruppo Mitsubishi, la più grande impresa giapponese ed una delle più grandi imprese multinazionali del mondo.
Questo ottobre la Mitsubishi ha investito 9 miliardi di dollari per salvare la Morgan Stanley con il bene placido della Federal Reserve. Ha comprato una cifra del 21% della quota azionaria con una cifra pari al 100% del valore sgangherato che ha la banca nelle quotazioni di Wall Street. Perchè mai avrebbe dovuto sovrastimare in maniera così evidente le azioni?
Per una semplice ragione: la Morgan Stanley è azionista della Fed, la Fed come autorità garante del mercato finanziario ha improvvisamente dato un clamoroso colpo di spugna sulle inchieste per gravi violazioni delle legge bancarie contro Mitsubishi Ufj. Si parlava di "sanzioni per perpetuate pratiche illegali, violazioni normative e transazioni inappropriate, con contestuale obbligo di sospensione delle attività bancarie". Ora non si parla più.

Il cambiamento di Obama è alle porte, l'acuirsi del poderoso conflitto di potere di banche ed intermediari finanziari pure. Il sistema che ha portato alla crisi continua a fagocitare potere. Le regole che gli stessi operatori si sono dati continuano ad essere disattese.

Il signor Rick Wagoner ha rinunciato al suo jet privato per muoversi da Detroit a Washington con un'auto ecologica per chiedere 9 miliardi al Congresso.
Il cambiamento è arrivato a destinazione, come ritornerà a Detroit?

sabato 22 novembre 2008

La crisi dello Stato Sociale IV. La propaganda

Si è innescata dunque, da una ventina d'anni, la volontà del potere economico di contenere la presenza di dispositivi di controllo generali egualitari e dispendiosi nei confronti dell'erario, ma come è possibile convincere di tale necessità anche i cittadini che da quello stesso Welfare traggono benefici?
Come è possibile convincere l'elettore mediano (figura dell'uomo medio utilizzata dall'Economia Pubblica per definire la tendenza generale) a credere che disinvestire nelle scuole pubbliche, negli ospedali pubblici o nell'assistenza a chi non ha lavoro sia razionalmente un bene ed un arrichimento per la propria condizione di vita, considerando che farà continuamente ricorso a questi tre isituti per tutto il corso della sua esistenza?

Per analizzare questo passaggio mi piace partire da una frase del sociologo economico polacco Zygmunt Bauman che spiega come il consumismo abbia inculcato nelle persone “un’utopia individuale a discapito di un’utopia sociale”.
Le ragioni materiali sono ancora in tutto e per tutto legate al cambiamento del sistema di produzione post-fordista (libera circolazione di capitali, minor potere contrattuale del lavoro, terzializzazione e finanziarizzazione dell'economia) e quindi portate avanti dai gangli del potere economico-finanziario, i metodi di legittimazione sociale e politica invece si basano sul richiamo ad un individualismo subdolo e miope. A questo riguardo le posizioni consolidate dei partiti politici sono da una parte volte ad evidenziare gli sprechi e le inefficienze della pubblica amministrazione e dall’altra prodigando i benefici individuali di un abbassamento delle imposte.
Questa regressione democratica sarebbe stata impensabile ai tempi della conquista del suffragio universale, la ragioni che adesso la rendono comunemente accettabile attecchiscono nella natura più profonda della società dei consumi che trae in inganno i cittadini celebrando un edonismo che è potenzialmente accessibile a chiunque per cui nessuno nel suo intimo si sente indigente e quindi alle dipendenze del potere redistributivo dello Stato. Il seme che si innesta con questo genere di propaganda si esplicita in ultima istanza, nel pensiero degli elettori di medio livello, con la certezza che si starà meglio se si bada da soli ai propri interessi.
Individualismo e retorica antistatale (da parte degli stessi partiti politici di destra e di "sinistra") portano i cittadini all’idea che il denaro immediatamente in tasca dopo il taglio delle imposte sia un’alternativa ben più valida della remota possibilità di usufruire di servizi sociali sempre più fatiscenti. In questo modo la parola “riforma” o “riformista” si veste di maggior efficienza e di minor sprechi ma a livello attuativo, chiudendo il cerchio, va nella direzione delle esigenze del gotha del potere industriale.

In Europa, dove il Welfare era maggiormente legittimato da una storia di inclusione sociale, è stato necessario fissare delle coordinate istituzionali macroeconomiche più rigide per concretizzare questa tendenza. Il momento fatidico è scoccato con la firma del Trattato di Maastricht nel 1992. Le grandi potenze europee hanno dovuto contenere la spesa pubblica in prospettiva di un’unica autorità monetaria centrale mediante parametri di bilancio (il deficit pubblico non può essere superiore al 3% del pil), di debito pubblico (60% del pil) e di contenimento dell’inflazione (obiettivo programmatico del 2%).
Cosa è cambiato nelle dinamiche welfaristiche comunitarie? Prendiamo come esempio i sussidi: in questo istituto di trasferimento ci si è ispirati a pratiche selettive (per esempio il governo socialista francese nella finanziaria del 1997 e socialdemocratico tedesco nella finanziaria del 1999) limitando il versamento di assegni familiari prima di allora concessi a tutti. Limitare e peggiorare i servizi sociali al settore della popolazione più emarginato dell’elettorato, agli occhi degli strati un po’ meno poveri alimenta un sentore di fatiscenza per la cosa pubblica e fa apparire anche le indennità più misere, offerte dalle assicurazioni private, un gran lusso al confronto.
Il messaggio implicito, come sostiene Bauman, è che “il ricorso all’assistenza è il segno dell’incapacità di vivere all’altezza di quegli standard raggiunti invece dalla maggior parte delle altre persone: una decisione umiliante che comporta l’autoesclusione e l’autoemarginazione”.
Ma questo vale anche e sopratutto per la sanità e per l'istruzione, gli istituti in assoluto più dispendiosi per il bilancio pubblico. In queste settimane in Italia, malgrado una mobilitazione generale di tutto il comparto della formazione di fronte a tagli indiscriminati, l'opinione pubblica fatica a vedere in questo eventualità di scuole più inadeguate e barriere all'entrata delle università (per l'innalzamento delle tasse e la possibilità di trasformazione in fondazioni private), vede piuttosto un maggior beneficio per la propria condizione di contribuenti e addirittura di cittadini. La logica e la matematica escono da questo passaggio estremamente claudicanti. E' un discorso di economia domestica, non di econometria comparata: è
impossibile che il contribuente medio italiano guadagni da una riduzione fiscale di 100-120 euro (nella più rosea previsione) a fronte di un abbassamento del livello scolastico, ospedaliero, assistenziale e di accesso universitario. Chi ci guadagna, a livello distributivo e redistributivo, sono le dinamiche di mercato privato controllate da contribuenti ben al di sopra del suddetto elettore mediano.

Visto il problema da un’altra angolatura, ispirandosi alla dicotomia etica del lavoro (fordismo) ed estetica del consumo (post-fordismo), si potrebbe arrivare a dire che la caduta ideologica dello Stato Sociale è il trionfo dell’apologia della scelta.
Mentre il Welfare promuove l’idea di uguaglianza il marketing promuove l’idea di differenza e differenziazione.
Il consumismo dà la massima importanza alla scelta individuale (modalità puramente formale) come valore in sé. Il mito del consumatore per esistere deve specchiarsi nel mito della libera scelta. Maggiori sono le condizioni economiche più è ampia la gamma delle preferenze, “il consumatore ideale preferirà sempre i rischi e gli imprevisti di questa libertà alla relativa sicurezza di quel che passa in convento” (Bauman).

venerdì 21 novembre 2008

La crisi dello Stato Sociale III. Lo smantellamento


A metà del ‘900 si dibatteva se il Welfare State fosse un'entità beffarda (perchè comunque manteneva un sistema capitalistico basato sullo sfruttamento dei lavoratori ma levigava gli attriti con l'offerta di servizi essenziali gratuiti) o una conquista tironfale per la classe operaia. Una cosa era sicura però: la sua natura irreversibile; "a meno che non si voglia eliminare i sindacati, destrutturare i partiti ed abrogare la democrazia" (Claus Offe).
Il Presidente americano repubblicano Richard Nixon nel 1971 dichiarò che “oggi come oggi nessuno non si direbbe keynesiano”.
Nessuno avrebbe pensato che dai primi anni '80 il suo smantellamento sarebbe stata una realtà.
Nessuno nel 2008, per quanto schierato a sinistra, potrebbe sottoscrivere le parole di Nixon.

Un passaggio chiave per analizzare le dinamiche regressive del modello di Stato Sociale sta nelle diverse sollecitazioni che stava subendo l’economia mondiale nella metà degli anni ’70: balzo tecnologico, alto potere contrattuale del lavoro e spinte inflazionistiche.
Sorgevano vari problemi inerenti alla sostenibilità del sistema:
  • Il poderoso avanzamento tecnologico in campo medico aveva di fatto allungato le aspettative di vita fino a dei livelli inattesi dai legislatori dei decenni precedenti.
  • Le folate inflazionistiche premevano sulla sostenibilità del debito pubblico in quanto si sollevava il problema per lo Stato di emettere titoli del debito capaci di prevalere sull’aumento del livello dei prezzi.
  • Sul finire del decennio i programmi liberisti (che condannano le eccessive ingerenze dello Stato nell’economia e “sollevano” i cittadini da molto del loro peso fiscale) sembravano per le istituzioni i più adatti a fronteggiare la crisi del modello industriale-fordista e la terziarizzazione del sistema.
  • Una spiegazione più ottimistica verteva sul fatto che ad un aumento delle risorse sistemiche e dei redditi individuali, corrispondeva anche un numero limitato di eventi negativi, ai quali la spesa sociale doveva far fronte (tradotto: se le persone pagano meno tasse sono meno esposti al rischio di povertà).

Il Welfare State a fronte di tutte queste variabili che si stavano accavallando, dovette essere ripensato e alleggerito. Questa idea ha trovato col passare degli anni spunti attuativi basati su di un contenimento dei costi della spesa pubblica, derivato da un abbassamento dell’imposizione fiscale, sulla riduzione dei tempi di permanenza nelle condizioni di bisogno, sulla restrizione delle aree di copertura di rischi.
Ma non si tratta solo di una trasformazione tecnica: la soppressione di vari istituti di assicurazione sociale è stata accompagnata da una generica disaffezione per la cosa pubblica tale da evitare particolari attriti nei diversi scenari della comunità.

Per chiarire il concetto mi preme ricordare che le macrodinamiche economiche hanno sempre una base materiale. In altre parole: è facile spiegare il declino del Welfare State ponendo il focus sul cambiamento ideologico e sul successo della dottrina monetarista nei gangli decisionali delle istituzioni, nella realtà però le ragioni che stanno alle fondamenta di questi passaggi sono solo il frutto della nuova divisione del lavoro derivata dal processo di automazione della produzione industriale.

L’affermarsi del paradigma della flessibilità in seguito alla rivoluzione tecnologica ha spezzato l’intesa interclassista ed intergenerazionale che era stata il grande volano dello sviluppo dello Stato Sociale. In tutto il “periodo fordista” europeo ed americano il welfare creò un valido esercito industriale di riserva, garantendo anche alle classi più disagiate una continuità di formazione pronta ad essere fruita dalle imprese nelle quasi perpetue fasi espansive della domanda; grazie a questo “servizio pubblico” le stesse imprese pagavano volentieri l’erario. Negli ultimi due decenni, a causa della maggiore concorrenza fra privati e i bassi livelli di crescita aggregata (PIL), la manodopera eccedente rischia di non essere più impiegabile non tanto perché poco qualificata, ma per l’assenza di domanda.
Ormai i profitti delle imprese derivano da investimenti strutturali che non comprendono l’assunzione di un maggior numero di dipendenti, anzi gli esuberi sono sinonimo di vivacità imprenditoriale e vengono regolarmente remunerati dalla Borsa. Contemporaneamente la libera circolazione dei capitali permette lo sfruttamento di lavoratori in paesi asiatici, latinoamericani ed africani dove lavoro significa sopravvivenza, dove non è necessario stimolare il consumo o inventarsi nuovi stimoli per la manodopera.

Il risultato di tutto questo è che adesso l’esercito industriale di riserva ha dinamiche mondiali mentre l’assistenza sociale conserva ancora le sue peculiarità nazionalistiche: nella percezione dei grandi gruppi industriali finisce la visione costruttiva del Welfare State.

giovedì 20 novembre 2008

La crisi dello Stato Sociale II. La Storia


Lo Stato Sociale è un insieme di norme mediante cui lo Stato cerca di lenire problemi di diseguaglianza e di rischi sociali all'interno della comunità. Rientrano perciò in questo ambito tutti gli interventi costitutivi, normativi ed esecutivi volti a permettere un'istruzione ed una sanità pubblica e gratuita, un sussidio per chi non recepisce un reddito, una pensione sociale per chi non è più in grado di lavorare e quindi mantenere "Un'esistenza libera e dignitosa" (Costituzione della Repubblica Italiana)
Storicamente si nutre di un crescendo di rivendicazioni alimentate dalla progressiva affermazione della rivoluzione industriale e di un sistema economico basato sull'egemonia del mercato.
Si possono individuare 4 momenti storici particolarmente emblematici per disegnarne le sorti:
  • Modello Bismarckiano. Nella Germania del XIX secolo vengono approvate una serie di norme a tutela degli operai salariati in materia di infortuni sul lavoro e piani previdenziali (pensioni). Questi provvedimenti sono stati il frutto di lotte sindacali a volte drammatiche in cui migliaia di persone hanno messo a repentaglio il proprio lavoro, la propria libertà civile e la propria vita.
  • Modello post-crisi del 1929. L'amministrazione Roosvelt in America comincia una prima tutela dei rischi derivati dalla ciclicità strutturale dell'Economia di mercato (il fenomeno empirico che vede un alternarsi di fasi espansive e fasi recessive del sistema economico). Vengono intraprese politiche pubbliche volte a stimolare l'occupazione e a garantire dignità retributiva anche agli outsider tramite sussidi. Una lunga serie di lavori pubblici, spesso puramente pretestuosi, assorbirono 2-3 milioni di disoccupati. Ad innescare questo deciso cambio di rotta fu la concomitanza di due fattori: il primo, quello materiale, derivante dall'incubo della recessione americana dei primi anni '30; il secondo, accademico-pragmatico, dalla penetrazione nella cultura liberale statunitense dell'opera dell'economista inglese John Maynard Keynes "Teoria generale dell'Occupazione, dell'Interesse e della Moneta".
  • Il piano Beveridge. E' il passaggio fondamentale, la piena espressione del concetto di Stato sociale in un'economia fordista. Verso la fine del secondo conflitto mondiale un deputato liberale inglese, William Beveridge, presenta in Parlamento il rapporto Social Insurance and Allied Services in cui propone allo Stato un nuovo ruolo di giudice della piena occupazione, il ruolo cioè di fautore di pressanti e continue (non quindi legate alle crisi) politiche economiche che siano di impulso al raggiungimento del pieno impiego. Avviene quindi uno stacco programmatico con la logica liberista che vede nel mercato l'unica fonte di demarcazione tra occupati e disoccupati. Inoltre viene proposta assistenza sanitaria e previdenza gratuita per tutti. Gli ordinamenti giuridici occidentali (la Costituzione del 1948 nel caso dell'Italia) recepiscono la necessità di questo cambio epocale degli assetti di mercato.
  • Lo smantellamento. Dall'inizio degli anni '80 comincia un processo di riflessione prima ideologica (Tatcher eletta nel 1979 in UK, Reagan nel 1980 in USA) e poi attuativa sulla necessità di contenere il peso del pubblico nell'economia. Trasformazioni del sistema di produzione (informatizzazione, in seguito verrà spiegato il nesso) e necessità di contenimento del debito pubblico slancia una stagione di privatizzazione e liberalizzazione di mercati (energia, trasporti, telefonia) fino ad allora monopolizzati dalle grandi aziende di Stato spesso motore in primis delle politiche di pieno impiego.
Se a livello storico il progresso del Welfare State ha subito processi di ampliamento (e detoriamento) comuni, a livello locale ha trovato spunti ed impedimenti diversi essendosi intrecciato con diverse mentalità pregresse e nature demografiche. Con un audace paragone si potrebbero chiamare in causa i processi di evangelizzazione compiuti in diversi luoghi del mondo, la cristianità che ne è derivata (malgrado fossero comuni le tappe canoniche che hanno formato il dogma) si è dovuta specchiare con la spiritualità autoctona.
Esiste quindi un modello scandinavo, nel quale vige un universalismo dei diritti (lo status di cittadino garantisce piena assistenza da parte dello Stato a prescindere dal percorso lavorativo) e lo Stato è una presenza totalizzante in varie fasi della vita, questo ovviamente presuppone un alto carico fiscale.
Esiste un modello liberale, sviluppatosi nei paesi anglosassoni, dove lo Stato garantisce un’equità procedurale ed una copertura dei rischi sociali estremi e per il resto lascia alla potenza regolatrice del mercato.
Infine c’è un modello corporativo, dove è invece lo status di lavoratore e quindi la capacità di gettito fiscale a condizionare i programmi di spesa. Da questo sistema di Welfare State, il più diffuso in Europa continentale e meridionale, si delineano due sottocategorie secondo un criterio più aziendale (Giappone) o più familistico (Mediterraneo).

martedì 4 novembre 2008

La crisi dello Stato Sociale I. La Finanziaria 2009



Il ministro Mariastella Gelmini, in un'intervista al Corriere della Sera di una settimana fa, dichiara che la sua politica si ispira a quella di Barack Obama. Evidentemente aveva trovato in questo paragone una frase ad effetto buona per autodefinirsi giovane, dinamica e proiettata al futuro.
Un vero peccato andare avanti solo a slogan. Se fosse stata più attenta alle sue parole (o a quelle di Obama) la Gelmini avrebbe appurato che nel discorso di accettazione della nomina a candidato presidenziale, quindi nel discorso maggiormente programmatico, il Senatore democratico ha detto: "La necessità di permettere un'istruzione di alto livello a tutti consiste in maggiori finanziamenti pubblici alla scuola,
assumere nuovi insegnanti e pagarli meglio".

Sbaglia chi vede in lei un nemico, sbaglia chi vede in lei un interlocutore valido (malgrado gli slogan con chi ha un cognome in -ini riescano piuttosto bene), la Gelmini è solo un mero esecutore di un disegno generale.
Questo disegno rispecchia un atteggiamento diffuso dell'attuale governo ed un trend storico mondiale. In questo post analizzerò il primo.

Il decreto legge 112, attuato in materia di istruzione e ricerca dalla legge 133, è il cosiddetto Dpef (documento di programmazione economica e finanziaria) che verrà attuato con la legge finanziaria da approvare tassativamente entro il 31 dicembre 2008.
Tratta della variazione delle dotazioni finanziarie nei diversi ambiti dell'apparato statale e specifica le differenze tra l'anno corrente (2008) e l'anno venturo (2009).
Il documento è pubblico e si possono riscontrare diverse contraddizioni tra quella che è la politica fatta di parole e quella che è la politica fatta di cifre.
  • Istruzione, la ferita sociale che si sta aprendo in questi giorni nelle scuole, nelle università nei centri ricerca e nelle strade d'Italia: -293 milioni per la scuola dell'obbligo, -178 milioni per l'Università, -315 milioni (-8,2% sul totale) per ricerca ed innovazione pubblica.
  • Le parole: Piena soddisfazione è stata espressa dal ministro Maroni per l’approvazione definitiva - il 23 luglio scorso da parte del Senato - della legge sulla sicurezza che consentirà, ha dichiarato “un contrasto più efficace dell’immigrazione clandestina, una maggiore prevenzione della microcriminalità diffusa attraverso il coinvolgimento dei sindaci nel controllo del territorio e una più incisiva lotta alla mafia". Adesso le cifre: Ordine pubblico e sicurezza -451 milioni, Difesa e sicurezza del territorio -645 milioni.
  • Rialzati Italia!, diritto alla mobilità: -2,049 miliardi (-17,0% sul totale).
  • Calderoli: "un federalismo in cui avranno tutti da guadagnarci". Sviluppo e riequilibrio del territorio: -2,344 miliardi (-27,5% sul totale).
  • A parole sembra che sia solo un problema di tornelli per i magistrati, in cifre i comparto della giustizia avrà una contrazione di spesa pubblica pari a 376 milioni.
  • Il 26 Maggio Berlusconi incontra il Papa: "particolare attenzione è stata dedicata agli aiuti alle famiglie". Temo invece che i due si siano intrattenuti un po' troppo nel discutere della delegittimazione della legge sull'aborto e della avversione endemica nei confronti dei gay monogami perchè dal Dpef risulta un taglio alle politiche per la famiglia di 543 milioni.
  • Competitività e sviluppo delle imprese, sembra il chiodo fisso, poi si decreta: -610 milioni (-11,8% sul totale)
Queste sono solo alcune voci, l'elenco completo può essere consultato sulle tavole fornite dal Sole 24ore sul sito: http://www.clandestinoweb.com/images/stories/Elena/TAVOLE/tagli_finanziaria_2009_27_10_08.jpg

Nel prossimo post spero di affrontare un argomento più difficile ma molto più interessante: il trend storico che porta i governi ad innescare, perpetrare e realizzare un disegno provvidenziale in materia di politiche pubbliche di questa natura.